C’è una corsa all’oro. Grandi multinazionali, banche, Stati stanno investendo letteralmente montagne di miliardi. Ma l’“oro”, stavolta, non è né il prezioso metallo giallo, né tantomeno il petrolio: sono null’altro che i terreni agricoli, un bene “vecchio” che fino a qualche anno fa valeva poco e non interessava a nessuno.

Un accaparramento dovuto alla pressione ambientale, all’esplosione della popolazione, al cambiamento climatico, alla volatilità dei prezzi dei prodotti alimentari, alla scarsezza dell’acqua. Fenomeni che rendono la semplice terra un bene sempre più prezioso. Soprattutto per chi ha potenza e danaro, e acquista terreni a rotta di collo in Africa, Asia ed America Latina come “assicurazione” per il futuro o per produrre biocarburanti: è il caso della Cina, ma anche degli stati petroliferi del Golfo Persico. L’accaparramento di terre – in inglese, land grabbing – è diventato una realtà impressionante: la terra venduta in tutto il mondo negli ultimi dieci anni ha una superficie pari a quasi 7 volte il territorio dell’Italia. Per la precisione, secondo l’International Land Coalition, 203 milioni di ettari di terreno, 106 dei quali in paesi in via di sviluppo. In questo momento nei paesi più poveri ogni 4 giorni un’area di terra più grande dell’intera città di Roma viene venduta ad investitori stranieri. Questi terreni, se fossero coltivati potrebbero dar da mangiare al miliardo di esseri umani che oggi soffrono la fame. Ma due terzi dei nuovi proprietari prevedono di esportare tutto quello che su queste terre viene e verrà prodotto. Quasi il 60% di questa terra inoltre è destinata a colture utilizzabili per i biocarburanti. Quando invece servirebbero maggiori investimenti a favore dei piccoli agricoltori.

Quando un’acquisizione di terra si trasforma in un land grab? 

Le acquisizioni di terra diventano land grab (accaparramenti) quando una o più delle seguenti condizioni si verificano: 

  • violazione dei diritti umani, in particolare del diritto all’eguaglianza delle donne;
  • assenza di consenso libero, preventivo e informato – in base al quale le comunità coinvolte sono informate sul progetto e in grado di dare o rifiutare il proprio consenso;
  • mancanza di valutazioni meticolose sugli impatti sociali, economici e ambientali, con un’attenzione anche alla diversificazione degli impatti sul genere;
  • assenza di contratti trasparenti che specificano impegni chiari e vincolanti sull’occupazione e sulla condivisione dei benefici;
  • mancanza di effettiva pianificazione condotta in modo democratico, con una supervisione imparziale e un approccio partecipativo.

 

Casi eclatanti

  • Negli ultimi cinque anni più del 30 per cento della terra in Liberia è stata distribuita con concessioni su larga scala, spesso con conseguenze drammatiche per le popolazioni locali. 
  • In Papua Nuova Guinea il programma Special Agricultural and Business Leases (SABL), ha garantito concessioni anche di 99 anni ad aziende per lo più straniere su circa 5,1 milioni di ettari di terra comunitari.
  • In Cambogia, le ONG stimano che un’area tra il 56 e il 63 per cento di tutta la terra arabile nel paese sia stata data a aziende private. 
  • In Honduras, il numero di persone uccise in un conflitto sulla terra nella regione di Bajo Aguán è salito a oltre 60, e non dà segni di fermarsi.
  • In Sardegna, alla fine del mese di febbraio 2012 i cittadini di Narbolia, piccolo centro dell'oristanese, si sono visti sottrarre l'unica piana fertile del territorio in cambio di un impianto di serre fotovoltaiche da 27 MW di potenza. L'investimento della società cinese WinSun Luxemburg s.a., una volta ottenuta l'autorizzazione dal GSE, dovrebbe fruttare tra incentivi statali (pagati da noi nella bolletta) e vendita della corrente prodotta, più di 10.000.000 di euro l’anno per 20 anni. Parte della società civile si è costituita in un comitato spontaneo “S'Arrieddu per Narbolia”, decisa a contrastare questa speculazione definita Furtovoltaico. Il comitato è sostenuto dall'associazione Italia Nostra e dall'Adiconsum Sardegna.